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Ne parla con gioia e nostalgia …

Ne parla con gioia e nostalgia dei tempi vissuti nel paese natio. Racconta di sé, della sua vita alle prese con le faccende domestiche e le attività della campagna.

L’antico portale della sua casa sempre aperto, il pallido riflesso dei raggi del sole sul selciato. Maria Zonca di Tuili, 86 anni, due figli, una nipotina, e una lunga storia da raccontare. Donna d’altri tempi, come una vestale accoglie nella sua abitazione per condurci, compiendo un sentiero a ritroso, nel suo passato di bambina e donna vissuta a Tuili, un piccolo paese del sud della Sardegna.

La si intravede tra le fronde degli alberi che fanno capolino sul portoncino interno della sua casa di Dolianova. Vi si accede attraversando una scala ornata di vasi e piante floreali. Agile ed elegante nelle movenze come se il tempo e la vita condotta l’avessero sfiorata con delicatezza. Ma non fu così. Sorprende che una donna così minuta ed esile, fin dalla più tenera età, abbia conosciuto la dura fatica dei lavori di casa e campagna negli anni prima e dopo il secondo conflitto bellico.

Mi sorride e accoglie con tono pacato e gentile nella camera da pranzo della sua abitazione. Sul divano un cestino da cui sporgono gomitoli di lana colorati e il suo lavoro a maglia. “Io lavoro sempre. Mi piace. Ho iniziato all’età di sei anni”. Sorride ancora, mentre più volte ripete: “Mi piace. Non mi fermo mai. La notte dormo poche ore come quando ero fanciulla e dovevo prendermi cura dei fratellini appena nati, ma non ne risento”. Primogenita di dodici figli, doveva aiutare la sua famiglia nei lavori di casa e in campagna. Al tempo si usava così.

Al ruscello per lavare i panni. Aveva appena sei anni. Scalza d’inverno come d’estate, con un piccolo recipiente per gli indumenti e il sapone, si univa al gruppo delle donne per recarsi al rio. Nei mesi invernali l’acqua era gelata, ma c’era un rimedio: per provare un po’ di sollievo bastava immergervi subito le mani e tenerle un po’ sotto. Avere gli arti gonfi e ghiacciati era normale al tempo, poiché le scarpe s’indossavano soltanto la domenica per andare in Chiesa. Ma si era talmente abituati che quasi non si avvertiva più il dolore. Canti, chiacchiere e risate alleviavano le fatiche.

Si faceva tutto in casa, anche il sapone.
Con la sapienza di una Giana, Maria mischiava il cloro con la soda e l’olio di oliva o lo strutto di maiale, lo faceva bollire dentro recipienti di rame posti sul braciere del caminetto e con pazienza mescolava. Infine versava il contenuto dentro contenitori di alluminio per la colorazione finale.

C’era un pozzo nella sua casa di famiglia. Ai bambini si raccontava la storia de sa Mamm’a funtà, il racconto della Mamma del pozzo.
C’era una volta una donna brutta e cattiva, che viveva nel fondo di un pozzo. Questa donna non voleva che i ragazzini vi si affacciassero per guardarla. Chi disobbediva faceva una brutta fine, poiché con le sue mani lunghe, lunghe lo acchiappava e tirava giù.

“Ho lavorato tanto e sono contenta… Ma il mio desiderio era di poter lavorare in un ufficio postale”

L’acqua del pozzo non era potabile, si facevano le scorte con l’acqua della fontana comunale. Tutti i giorni Maria vi si recava con due brocche, una tenuta di fianco e l’altra sulla testa, e andava avanti e indietro dalla sua casa, anche tre volte in una giornata.

Si diceva che quel pane facesse risvegliare anche i morti.
Il grembiulino, un fazzoletto in testa, il piccolo tavolo da bambina e Maria era pronta per fare il pane. Alle prime luci dell’alba era già in piedi, il fuoco del forno era acceso e le mani intente a lavorare la pasta. “Durante il lavoro si chiacchierava e cantava”.
Anche dopo la guerra, quando il padre acquistò l’impastatrice elettrica, continuò a lavorare intensamente. La famiglia affittava il macchinario per l’impasto. “Mi alzavo all’una del mattino e insegnavo come si faceva o lo facevo io, poi le donne lo cuocevano nel forno delle loro case. Lo si affittava a ore in base alla quantità”.

Per fare il pane ci voleva la farina. Lo spiega in ogni dettaglio come si macinava il grano, si ottenessero i diversi tipi di semola e quale fosse il loro impiego, mostrando con quali movimenti del busto e delle braccia si operassero le varie trasformazioni come quando separava la farina dalla crusca, facesse la fregola e ancora, ancora. Una danza rituale che porta in sé il segno di lavorazioni millenarie.

Il viaggio continua, è tempo della semina. La sua famiglia possedeva dei terreni e quando era necessario Maria andava anche a lavorare in campagna per seminare e raccogliere il grano, le fave e i ceci. Con la zappa o l’aratro a buoi, senza le scarpe, insieme al nonno e i fratelli, patate bollite, cipolla, formaggio e salsiccia secca per il pranzo, usciva alle sei del mattino (per lavorare nelle ore meno calde) e rientrava alle quattro di sera. “Era molto faticoso soprattutto con il caldo estivo. Si coglievano le spighe una a una per fare il mazzo, più ne raccoglievo e più babbo mi dava i soldini”.

Ma c’era anche la raccolta delle olive: ne riempiva un sacco e un cappuccio e camminando china e aiutandosi con una canna o un bastone di legno, trasportava il carico sulla schiena. Ma si cantava e la fatica un po’ passava. “Trallalera lerà leràllalera/ trallalera lerà leràllàllà”.

“A dieci anni imbiancavo le pareti di casa e facevo i materassi con mamma”.
Due volte all’anno veniva cambiata la fodera dei materassi fatti con la lana o il crine: si scuciva la fodera, la si lavava e metteva ad asciugare, poi si pettinava la lana o il crine e si ricuciva il tutto.

A Pasquetta la scampagnata sulla Giara di Gesturi. “Mamma ci dava un mandarino, su coccoi con l’uovo sodo, ne faceva dieci per l’occasione, cipolle arrosto, patate bollite, e cantando, salivamo scalzi sulla montagna. Eravamo felici”.

La festa di San Giovanni. La notte del 21 giugno in ciascun vicinato si accendevano i fuochi e le famiglie vi si radunavano tutt’intorno. In onore del Santo vi era l’usanza di saltare il fuoco per tre volte, in senso verticale e orizzontale, nel segno della croce. “Si diceva che portasse bene”.

La luce della lanterna rischiarava le lunghe notti invernali. Il fuoco del camino sempre acceso, i bambini, e un grande tavolo dove ognuno condivideva le sue vivande, rendevano speciale la notte del Natale. Un batuffolo di cotone imbevuto di olio d’oliva teneva viva la fiammella del lume.

Statuine di pane davano vita e forma al presepe, dove un tubicino di gomma faceva scorrere l’acqua dando l’idea di un ipotetico fiume. Custodito nel cortile della casa accoglieva i parenti e gli amici che vi facevano sosta per ammirarlo.

Le sue bambole. Con l’impasto del pane venivano modellate le sagome di piccole bambine, le bamboline di pane. Le spine e il seme del fico d’india messi insieme diventavano la loro stanza da letto e i lettini. I fratelli giocavano con i carretti fatti con lo stelo della pianta di asfodelo. “Giocavo soprattutto quando guardavo i fratellini”.

A Carnevale si stava tutte insieme per fare is zippulas, le zeppole sarde. Preparare le dolci frittelle era uno dei maggiori divertimenti. In occasione della festa di carnevale donne e bambine si riunivano nella grande cucina per i preparativi e tutte avevano un bel da fare: la lavorazione dell’impasto per le zeppole sarde è impegnativa, e come sempre: “Si rideva e scherzava, e si cantava”.

I racconti dei nonni.
Nei pomeriggi invernali ci si sedeva di fronte agli usci delle case per chiacchierare. “Ascoltavamo i discorsi dei signori anziani. Nonno ci parlava spesso di quand’era bambino e aveva sempre dei buoni consigli da dare e delle storie da raccontare”.
Contus : Is carrus furriaus
I carri rovesciati
Un giorno Gesù e San Pietro in cammino per le strade della campagna incontrano un uomo che seduto per terra pregava il signore che lo aiutasse a raddrizzare il suo carro. Ma, Gesù lo saluta e passa diritto. Cammina cammina, incontrano un altro signore che con fatica cercava di sollevare il suo carro che si era rovesciato e nel farlo diceva parolacce e bestemmiava perché non ci riusciva. Gesù si avvicina e lo aiuta a sollevare il carro. L’uomo lo ringrazia e loro vanno via. Giunti lontano San Pietro gli chiede: “Ma come Maestro? L’uomo che abbiamo visto prima stava pregando e non l’hai aiutato e invece all’altro che stava bestemmiando gli hai dato una mano”. Gesù risponde: “Il primo, poltrone, aspettava che glielo sollevassi io il suo carro, l’altro invece ci stava provando con fatica, e bestemmiava perché non ci riusciva. Lui meritava di essere aiutato!

“Ho lavorato tanto e sono contenta. Da grande ho sofferto perché i miei genitori non mi hanno fatto studiare, ho la terza elementare, essendo la primogenita dovevo aiutare la famiglia. Ma il mio desiderio era di poter lavorare in un ufficio postale”.
Ancora oggi Maria si prende cura della sua casa, fa i lavori a maglia, ricama, si dedica alla cucina che è la sua passione. E poi dice, e ne è convinta, che abbiamo troppe comodità “Preferisco lavare la biancheria a mano e camminare a piedi”. Non le piace lo stile di vita che si conduce nella società attuale. Ammette che ai suoi tempi si faticava troppo, ma non scambierebbe mai gli affetti e il calore umano, la solidarietà, la familiarità dei rapporti di vicinato, con gli agi e il benessere dei nostri giorni. Ai giovani consiglia: “Dovete studiare ma anche imparare a pulire la casa, a cucinare e fare i lavori manuali. Cercate di riscoprire il valore del rispetto, dell’educazione e dell’amicizia”. Pietro, il marito, con un sorriso chiude: “Mia moglie è imbattibile”.