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Contos de foghile

Il vento soffiava insinuandosi fra i pertugi del nuraghe Diana, sito in cima a un promontorio, che si affaccia sul mare di Is Mortorius, nella costa sud orientale della Sardegna. I visitatori osservavano l’imponente struttura rapiti e colmi di domande. Tuta rossa e capelli scarmigliati, Sinispella con un saltello scese dalla scala di pietra che conduce in cima alla fortezza nuragica, e raggiunse il gruppo dei
turisti. Prese il Grande Libro che era solita trasportare sulle spalle a mo’ di zaino, si sedette per terra e invitò i presenti a fare lo stesso, disponendosi in cerchio insieme a lei, perché su quel nuraghe aveva una storia da narrare, sconosciuta ai più. Così iniziò il suo racconto:
“Custu mundu est unu fiore chi si sicat per momentos, suggettu a tottu sos bentos de s’humidade e calore, est unu fumu, est
vapore “.
Questo mondo è un fiore che si secca sul momento, soggetto a ogni vento di umidità e calore, è un fumo, è vapore.
Cantava e piangeva l’anziana signora di fronte al cadavere dell’uomo deposto in una cassa di legno, nella sua casa, per gli ultimi saluti prima del seppellimento. Le sue parole risuonavano nel villaggio, raggiungendo anche chi si trovava lontano, lontano: la donna senza nome.
Era arrivata dal mare la donna senza nome. Aveva attraversato il cunicolo che conduceva al nuraghe, e ne aveva fatto la sua dimora. Era una fanciulla, allora, bizzarra. Sostava a lungo ai piedi della fortezza nuragica per ascoltare le voci del vento, della terra, del sole e della luna e ancora del mare. Non c’erano segreti per lei che sapeva leggere nell’anima di ogni comune mortale.
“Tristu die ch’ispettamus, sos chi in su mundu bivìmus, a unu a unu morìmus… “
Triste giorno che aspettiamo, quanti nel mondo viviamo, a uno a uno moriamo…

“Tristu die ch’ispettamus, sos chi in su mundu bivìmus, a unu a unu morìmus… “

Si disperava la vecchia, cantando quella struggente nenia, attitidus, che rendeva più dolce il dolore. La donna senza nome si era sentita lacerare dentro nell’udire quel lamento e corse giù al villaggio. Doveva incontrare la vecchia. Il cielo si oscurò, il vento scoperchiò i tetti di alcune capanne e il mare divenne muto.
Si osservarono a lungo lei e la prefica, e all’improvviso tutto divenne chiaro. Fino a quel giorno nessuno era mai riuscito a darle un nome, lei aveva dimenticato il suo passato. Aveva nuotato in mezzo al mare da cui era giunta, soffermandosi intorno agli scogli in cerca di un indizio, un messaggio, che potesse suggerirle le sue origini. Del mare si sentiva soltanto una figlia ribelle. Ma ormai tutto era limpido: le parole del vento tra le fronde degli alberi, gli umori del mare al mutare del cielo, quel sibilo insistente che penetrava tra i pertugi della sua casa di pietra.
Negli occhi dell’anziana donna aveva visto il giorno della sua morte. Ricordò chi fosse e che Diana era il suo nome: sa Mura, la fata che tesse il destino degli uomini. Fino a quel giorno aveva trascorso il tempo a tessere e intrecciare fili di lana e d’erba. Con il filo grezzo, il fuso e la conocchia, filava e filava, e poi tesseva vesti, coperte e tappeti. Ma se il fuso le cadeva per terra, interrompeva il suo lavoro e quei capi erano destinati a restare così. Li riponeva dentro una grande cassa di castagno.
Le ritornò alla mente il giorno della sua fuga, la ribellione, era solo una giovinetta, allora: la sua corsa verso il mare dove si era lasciata andare, abbandonandosi tra i flutti. Un’onda spumeggiante l’aveva poi accompagnata in quel lungo viaggio e adagiata sulla riva di Is Mortorius, in terra sarda.
“Sono una fata, sa Mura. In me è il potere di decidere del destino degli uomini, dalla nascita alla morte”.
“Sa Mura” , le aveva detto sua madre quando era ancora bambina, “fila i giorni della vita degli uomini, uno dei quali sarà inevitabilmente il giorno della loro morte. La lunghezza del filo che essa concede a un mortale dipende solo da lei, neppure la divinità può cambiare la sua decisione”. Ma fin dall’inizio aveva mostrato riluttanza ad accettare quel ruolo, quel potere le pesava, soprattutto per la crudeltà, diceva tra sé, cui dovevano sottostare le donne e gli uomini della terra, costretti a soggiacere a alla loro arbitraria volontà. Non ci stava.
Rientrò nella sua casa, la luna era piena e il mare calmo, prese il fuso, la conocchia, la lana e la posidonia, e iniziò a filare. Pettinava la lana, e il filo con la posidonia intrecciava, e filava, filava, finché una folata di vento non gettò per terra il fuso e la conocchia. Cessò di lavorare e depose il gomitolo dentro la cesta rossa. Era un segno: nel paese era nata una bambina, ma la mamma non era sopravvissuta al parto, giaceva in una pozza di sangue. Decise di andare a trovare la piccola.
Una muta di cani ululanti la seguì fino alla capanna della puerpera esangue. Quel continuo latrare spaventava chi si trovava nei paraggi, che attonito, scappava via terrorizzato. Capì che doveva nascondere il suo volto con un manto nero per non essere riconosciuta. Ma oramai nel villaggio avevano scoperto chi fosse. Si avvicinò dunque alla capanna e scorse la piccola nata dentro la culla. Sorrise tra sé. Quella bambina, che fu chiamata Marianna, divenne una donna forte e coraggiosa e fu nominata capo del villaggio. Un giorno, durante una delle scorribande (Bardane) che era solita condurre tra i villaggi confinanti, cadde ferita.
Il sole s’adombrò e il mare iniziò ad agitarsi, il vento soffiava insistentemente dietro l’uscio del nuraghe. Diana notò che il filo di Marianna era giunto alla fine. Salì in groppa al suo cavallo per seminare i cani che avevano già fiutato odore di morte, e la raggiunse.
La trovò riversa per terra sotto una quercia vicino al mare, e con il sangue che sgorgava a fiotti dal suo petto.
Sa Mura, definitivamente stanca di dover ancora sottostare alle leggi dell’ineluttabile destino, le si avvicinò, le prese una mano e la guardò in viso. I suoi occhi erano accesi e luminosi come il fuoco. “Non c’è niente di più vivo del fuoco” , aveva sentito dire dagli abitanti del villaggio. “È vero”, avvertì dentro di sé. Si diresse verso il mare, affondò la conocchia tra i flutti e in un’istante un grosso fascio di posidonia le si avvolse intorno. Ricominciò a filare. Marianna scampò alla morte.
Ma un forte vento iniziò a soffiare, il mare s’ingrossò e un violento temporale si scagliò sul paesello. Marianna, ormai sana e salva, ordinò alla popolazione di rifugiarsi nel nuraghe di Diana. Le genti obbedirono anche se titubanti, poiché avevano paura della fata del destino, e sopravvissero al nubifragio.
Diana sapeva di aver violato la legge del Fato, e sebbene vivesse il peso della colpa, ne era felice. Il paese pian piano imparò a conoscerla e a dialogare con lei.
Cando so patimentu, si mudat in cuntentu, ite bellu penare! Quando il patimento si muta in contento, quale dolce penare! (di Raimondo Congiu, Oliena 1762 – 1813, poeta in lingua sarda).

Brevi cenni mitologici
La fata del destino in Sardegna si chiama ancora oggi Mura, che deriva dal Greco Moira, la dea che filava e tesseva il destino degli uomini. La lunghezza del filo che esse concedono a un mortale dipende soltanto da loro, neanche Zeus può interferire con le loro decisioni. Esse filano i giorni della nostra vita, incluso quello della nostra morte. Il nome greco Moira, significa “parte”, in riferimento alle tre fasi della luna (luna crescente, piena e calante) che secondo la leggenda omerica confluiscono in una sola Moira. Nella fase di luna calante la Moira diventa una vecchia dall’aspetto terrificante che fa tutto perire. Anche in Sardegna c’è una sola Mura che in sé riunisce i poteri corrispondenti alle tre fasi della luna, abita nei nuraghi e nelle grotte o in luoghi di culto cristianizzati. Trascorre il suo tempo a tessere e filare, decretando il destino degli uomini. Sta a guardia di un tesoro e tesse in un telaio d’oro. Talvolta offre ricchezze, talaltra sparisce senza lasciare traccia.
Nella fase di luna calante la Mura vaga nella notte con le anime dei morti, accompagnata dal latrato dei cani. Un tempo, quando si udiva un prolungato ululare di cani, si credeva che questi vedessero le anime dei morti che si accostavano agli usci delle case di chi doveva morire. Le puerpere la temevano perché da lei dipendeva la loro vita e quella del loro bimbo, e per propiziarsela, il giorno del parto seppellivano un cane vivo sotto la soglia della casa.